Meditazione d’inizio Avvento (28 novembre 2015)

Ogni volta che inizia per noi cristiani l’anno liturgico, con l’Avvento e il Natale, dobbiamo constatare che ci sentiamo in qualche modo a disagio oppure assistiamo a questi eventi con una buona dose di accettazione passiva, senza alcuna nostra partecipazione profonda e direi perfino emotiva. L’Avvento e il Natale accadono perché devono accadere, ma noi? Vivere, infatti, in questo nostro tempo, che si dice post-cristiano, significa per certi aspetti vivere un sottile inaridimento del cuore credente che, di fatto, sembra ritirarsi in se stesso e non conosce lo slancio dell’entusiasmo, della gioia intima e profonda che ci fa sentire la presenza di Dio e la sua dolce Parola che ci invita al cambiamento interiore. Il pericolo è per noi, dunque, la passività del tempo che accade e nel quale ci sfugge il senso della nostra esistenza di credenti. Bergson diceva giustamente che l’esistenza è continua e la nostra percezione discontinua. Ne consegue che la nostra ragione, il nostro intelletto, non può formarsi un’idea adeguata dell’esistenza. È l’intuizione, più dell’intelletto, a rivelarsi adeguata all’esistenza – l’intuizione è per l’uomo ciò che l’istinto è per gli animali.
Credo che i tempi forti dell’Anno Liturgico, nelle intenzioni della Chiesa, cerchino di risvegliare questa intuizione del Mistero di Dio, mai posseduta una volta per tutte. Ma è necessaria la nostra intima partecipazione, vale a dire quella parte di noi che non si abitua alle cose e al tempo che passa, ma che si fa domande circa il Signore e la sua azione nella nostra vita. «Ecco io faccio una cosa nuova – diceva il profeta Isaia –: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). In realtà, siamo troppo abituati – e noi, forse, più di altri – a sentire un “linguaggio” religioso che maneggiamo con una certa facilità, ma non ci rendiamo conto che la parola – la parola che nasce dal cuore e al cuore si rivolge – è tutt’altra cosa che un linguaggio discorsivo e, alla fin fine, inutile e perfino dannoso. Anche per chi lo maneggia e lo usa.
Eppure, l’Avvento e il Natale sono davvero un annuncio gioioso e nuovo ogni volta che lo ascoltiamo perché incrocia le nostre domande più drammatiche, anche quando vorremmo annegarle nella nostra precaria e squallida quotidianità: che senso ha questa nostra vita, quando ci aspetta una morte sicura? Possiamo allontanarne il pensiero, ma sta di fatto che una sottile angoscia presiede a questa nostra quotidianità immersa in mille incombenze e compiti. L’oblìo dell’anima è, in questo caso, il nostro nemico del vivere e dell’amare, come affermava l’esperienza di Proust. In una intervista del 1978 alla trasmissione francese Le jour du Seigneur, Matta el Meskin – che vogliamo seguire nelle riflessioni di questo Avvento e Natale del 2015 – diceva una cosa che mi ha colpito profondamente: «L’antica massima greca gnothi seautòn, “conosci te stesso”, è ambigua: come possiamo conoscerci da noi stessi? È impossibile senza l’intervento di Dio. Non appena cominciamo a metterci faccia a faccia di fronte a Dio iniziamo a scoprire la nostra vera immagine. Entrando in noi stessi, scopriamo la nostra realtà come esseri umani, vediamo la nostra vera immagine».
In verità, dobbiamo dirci con estrema serietà: non esiste fede cristiana senza la persona di Cristo. I cristiani non si rivolgono a un ignoto Assoluto che chiamano “Dio”, ma al “Padre di nostro Signore Gesù Cristo”, il quale ce lo ha rivelato e raccontato. E allora il Natale rappresenta certamente l’inizio sul piano della storia di questo straordinario racconto d’amore che tocca da vicino le nostre grandi domande così care anche alla filosofia: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. È, quindi, necessario tornare a riflettere sul Natale. Mai darla per scontata questa riflessione. E tanto più che oggi, in un tempo post-cristiano, il Natale sembra ormai svuotato di ogni significato cristiano: un Natale in cui non si attende nessuno e in cui nessuno nasce è semplicemente una perversione dell’anima. Di fatto, se il mistero del Natale – che tutti conosciamo a memoria – non entra direttamente nella nostra anima per interpellarci personalmente, è un mistero vuoto e senza vita.
 
Gesù Cristo è l’icona più perfetta della persona del Padre che in lui ci ama. Vedendo lui abbiamo visto il Padre: Cristo è ora il compagno che attraversa con noi la valle dell’ombra della morte. È l’Emmanuele, che è in mezzo a noi quando ci riuniamo nel suo nome, è il fratello che cammina con noi, soffre con noi, gioisce con noi, prega con noi il Padre. Ma il paradosso dell’Emmanuele è proprio questo: che mentre si fa “con noi”, cioè ci adotta per Dio, ci fa figli di Dio come lui, partecipi della sua stessa natura. Nel Natale, infatti, Dio, l’onnipotente dell’Antico testamento, si rivela come essere umile, mite. Nella precarietà della mangiatoia – il posto più infimo in cui poter nascere – Dio si fa bambino, un bambino la cui tenerezza e mitezza mettono a dura prova il nostro orgoglio e la nostra durezza di cuore!
 
Ma tutto questo, a dire il vero, potrebbe non toccarci per nulla e restare un evento che non ci riguarda. È questo il compito più urgente per noi cristiani in questo tempo d’Avvento: domandarci di continuo se veramente la nascita di Gesù è per la nostra vita personale qualcosa di decisivo e di cruciale fino al punto da cambiare in noi la prospettiva di come guardiamo a noi stessi e a quanto ci circonda. Siamo anche noi “nati veramente a Betlemme”?

Carmelo Mezzasalma

 

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